Dall’imminenza di una fine ingloriosa alla visione di una speranza possibile

di Marcello Panzarella

Considerando gli attuali progetti e lavori in corso che riguardano le infrastrutture siciliane, specie quelle ferroviarie, emergono alcune “bizzarrie” che solo l’assuefazione alla retorica politico-burocratica in buona parte ha finito col celare. Un esempio che dovrebbe essere lampante riguarda la litoranea ferroviaria Messina-Palermo, che per circa cento chilometri è ancora a binario unico, tortuoso, lentissimo. Tale linea, però, avrebbe dovuto essere non meno prioritaria della Catania-Palermo, che – sotto le spoglie surrettizie di segmento del corridoio transeuropeo Scandinavo-Mediterraneo – è ora in corso, più o meno travagliato – di realizzazione. Anzi, per dirla tutta, all’atto delle scelte la linea tirrenica sarebbe stata comunque più utile e urgente di quella interna, almeno per gli interessi di collegamento più concreti del capoluogo dell’isola. Tuttavia, le torsioni elettoralistiche della politica siciliana (che io preferisco chiamare “politicanza”) hanno inventato una improbabile ME-CT-PA, cioè una “entità” senza forte e chiara ragion d’essere, se non quella di aver risposto a una paventata emarginazione di Catania, più immaginaria che reale: in realtà, le linee ferroviarie siciliane capaci di esporre ragioni di essere in sé più coerenti sono primariamente tre, tra loro ben distinte: la ME-CT-SR, la ME-PA e la PA-CT.

Quali sono state, tra queste, quelle che fin adesso hanno costituito risposta e assieme fondamento alle relazioni funzionali più attive? Sicuramente è in prima linea quella dell’area ionica, che sostiene una continuità di insediamenti e di intraprese molto vivace, delle quali il Ponte di Messina, una volta in funzione, sarà motore di ulteriore vivificazione. Viene poi la linea tirrenica, se non altro perché la posizione molto decentrata del capoluogo Palermo richiede un collegamento quanto più breve, via Messina e lo Stretto (il Ponte), con Roma e col Nord. E la linea interna? Il deserto millenario che essa attraversa è sotto gli occhi di tutti. Certo, non bisogna commettere l’errore di dare per scontate e immutabili le relazioni consolidate o la loro assenza.

Ma se si investe nell’attraversare quello che in gran parte è un deserto economico e ancor più demografico (non si offendano i nisseni e gli ennesi) non si può pensare che tutto verrà in seguito, per forza endogena: bisognerà pure avere un piano per la sua crescita. Ma il piano non c’è, capace di rendere chiara la convenienza e l’urgenza del collegamento tra la “monade” Palermo e il baricentro della policentrica area ionica. Che cosa dovrà essere della vasta piana di Catania? Diciamo da Motta S. Anastasia fino al nodo del Dittaino? E quali relazioni convenienti potrebbero/dovrebbero essere favorite, fomentate, tra il fondovalle che la costituisce e le aree montuose, in via di abbandono, a Sud e a Nord di esso? La risposta non esiste, perché fin adesso la domanda non traspare, non è posta in evidenza, non è sottoposta all’attenzione pubblica. Eppure, si sta ricostruendo una ferrovia che comunque la imporrebbe, anzi – diciamo pure – la impone. La questione che qui sollecito è differente da quella del Ponte, non solo per la scala, ma anche per la sostanza. Perché è evidente che il Ponte serve da moltiplicatore delle relazioni, e che, benché confusamente e disarticolatamente, le premesse di una prospettiva di ulteriore sviluppo dell’area ionica, sospinto dal Ponte, sono già nelle cose, negli assetti territoriali ed economici e in una certa abitudine o attitudine all’intrapresa che caratterizza quell’area. Ma per l’interno dell’isola?

Bisogna considerare che nella forma triangolare della Sicilia alberga più di un triangolo. Il primo, che è pure il minore, è quello che abbiamo considerato fin adesso, definito dalle tre linee ferrate ME-PA, ME-CT e PA-CT. Nonostante la ricchezza del lato orientale di tale triangolo, e nonostante ai suoi vertici sorgano le tre maggiori città siciliane, tutte marittime, il suo interno è in via di abbandono, come pure la sua porzione nordorientale, la quale avrebbe una evidente vocazione turistica, non servita e non alimentata adeguatamente. Parimenti, se non addirittura più a rischio, è la parte dell’Isola esterna a tale triangolo, quella che si ottiene sottraendo il triangolo minore da quello primario, costituito dal perimetro complessivo dell’Isola. Questa parte dell’Isola è definita dal litorale tirrenico che corre da Palermo fino a Trapani, quindi dall’intera costa meridionale fino a capo Passero e da qui, volgendo verso Nord, dalla costa ionica iblea. In tutta questa vasta area, mal servita o non servita dalle ferrovie, solo la costa meridionale iblea e il suo hinterland conservano una vivacità economica e insediativa.

E dire che tutta questa vasta porzione della Sicilia guarda, e a volte scorge davvero, la costa dell’immenso continente africano, quello che tutte le previsioni economiche considerano, nel bene e nel male, il continente del futuro. E dire anche che tutta la costa di questa parte dell’isola guarda – senza esserne mai toccata – nientemeno che alla rotta marittima Shanghai-Rotterdam, che le corre in parallelo, a qualche decina di miglia di distanza: un fiume pregiato di merci che non tocca la Sicilia, ma va ad arricchire i porti del mare del Nord e i loro hinterland vastissimi. Non solo lungo quella costa non abbiamo porti minimamente adeguati, ma nemmeno vi disponiamo di ferrovie, essenziali per movimentare le merci e portarle ai luoghi di produzione (i quali – per evidente conseguenza – in Sicilia mancano).

Perché tutto questo? Direi, lo azzardo, perché la nostra classe dirigente è da lunghissimo tempo inadeguata, bolsa, disinformata; essa non conosce la storia, ignora le virtù della geografia, come pure quelle dell’economia: in buona sostanza, conosce soprattutto i meccanismi – le machiavellerie – per perpetuare se stessa. Così, non ha intravisto, non ha intuito, non ha previsto. E adesso che la guerra nel mar Rosso minaccia di bloccare questo flusso vitale dei commerci marittimi, questa classe dirigente – costituita da politici, tecnici della programmazione, della pianificazione, progettisti di sinergie immaginarie, insigni accademici – non si è nemmeno resa conto di una necessità ulteriore, un vero e proprio “Piano B” che la geografia ci mette a disposizione e che spensieratamente ignoriamo, cioè quello capace di mirare alla istituzione di relazioni nuove e fitte, marittime e infrastrutturali, da intessere con l’Africa, a partire dalla Tunisia, aperto a espansioni ulteriori.

Di fronte a tale assoluta mancanza di visione e di rispondenza, sento forte l’impellenza di invitare a una responsabilità di supplenza coloro che in Sicilia e a Roma si occupano, con sapere e buona volontà, di infrastrutture, di trasporti, di logistica, di geopolitica, di programmazione economica e di pianificazione territoriale: serve discutere di un piano vero di sviluppo, e non di un altro di quei “piani inutili” (così li chiamarono i proff. Carlo Doglio e Leonardo Urbani, più di mezzo secolo fa) troppo intessuti di compromessi, di bilanciamenti burocratici, colmi di troppo ma privi di evidenza e chiarezza. Senza un piano vero, cioè senza visione, senza idee, senza un grandangolo, potrai pure fare una Palermo-Catania quasi veloce, rattoppare qualche statale e provinciale, e anche costruire l’indispensabile Ponte, ma dovrai accorgerti, troppo tardi, che – contemporaneamente o subito a ruota – avresti dovuto progettare e realizzare tanto di più.

[28 dicembre 2023]