di Marcello Panzarella
Del dibattito sul Ponte di Messina che ha preceduto – e ancora segue – gli atti recenti del Governo e del Parlamento, colpisce il modo elementare delle questioni poste. Dopo più decenni di discussioni, esso pare fermo al grado zero della consapevolezza delle realtà al contorno: un contorno, o ambito problematico, che non è solo locale, e nemmeno solo nazionale, ma globale. Porre il dibattito nei termini di “Ponte-no / Ponte-sì” è non solo riduttivo, ma deviante: il trattare la questione come un referendum, o come una contesa tra fazioni, addirittura locali – messinesi o calabresi – è indice dello stato infimo cui si è ridotta la capacità di intendere e di orientare di una quota consistentissima della classe dirigente nazionale – intellettuale e politica – a tutti i livelli di responsabilità e di comunicazione.
Pochi hanno compreso che la questione è di quelle di alta valenza strategica, che investono di petto l’interesse nazionale italiano. Un interesse di cui si è smesso di parlare ormai da ottant’anni, quasi si trattasse di un tabù; e un ambito di questioni che è stato riposto in un cassetto e lì abbandonato: l’ambito di una Strategia Nazionale di Sistema consapevole della necessità di individuare le mete di tutto un Paese, capace di programmarne le direzioni e i passi secondo priorità da contemplare in ambito geopolitico, e di definire gerarchie di attori e attuatori, nonché compiti e tempi di esecuzione.
Una visione dirigistica? Direi di no: piuttosto la presa d’atto che, dopo l’abbandono dell’ultimo tentativo programmatorio, il Piano ’80, si è giunti in Italia a uno squilibrio ormai non più sostenibile tra il basso e l’alto, con la prevalenza di spinte centrifughe e localistiche che minano la solidità e la buona salute dell’intero Paese: concentrate in una visione lenticolare, come da microscopio, esse incidono negativamente sulla capacità di azioni corali – direi grandangolari – del Paese, sia che si tratti di considerare un territorio e di agirvi, sia che si abbia a che fare con ambiti di competenze specifiche, per esempio quelle ecologiche, che si pretende di far prevalere su ogni altro aspetto in nome di un rivendicato “interesse comune”. La bontà del prevalere del rapporto dal basso verso l’alto – malinteso non come diritto fecondo a essere ascoltati, ma come diritto prevalente del particolare nei confronti del generale – è divenuto in Italia un topos quasi adamantino. Gli esiti di tale interpretazione sono stati però nefasti e rischiano di esserlo ancora di più, come bene hanno mostrato, durante la pandemia, gli affanni delle diverse gestioni delle Sanità regionali, e come ancor peggio si prospetta con l’introduzione delle cosiddette autonomie differenziate, ove non adeguatamente compensate dalla introduzione e immediata applicazione di congrui Livelli Essenziali delle Prestazioni, validi a Verona come a Catania.
Occorre dirlo: tutto si tiene, e la debolezza relativa dell’Italia in ogni settore di attività e intraprese, e del problematico suo credito nell’ambito delle relazioni internazionali, consiste nella mancata presa di coscienza del proprio essere un Paese proteso per tre quarti nel Mediterraneo: un mare ormai centralissimo, nel quale occorrerebbe essere presenti da protagonisti, per trarre dalla propria collocazione – e dalle contingenze di questa – dei vantaggi quanto più generali, che l’intera compagine nazionale potrebbe condividere. Esiste tale consapevolezza? Solo in minima parte, e da tale parzialità derivano la mancanza di una strategia e l’assenza di un piano capaci di tradurre in atto le potenzialità trascurate del Paese. Uno degli innumerevoli indizi dell’inettitudine strategica italiana ci si è palesato proprio su “Il Giornale dell’Architettura” (22-07-2020) in un’illuminante intervista a Fabrizio Barca, già ministro PD per la Coesione Territoriale: «Qual è il ruolo dell’Italia nel Mediterraneo – gli fu chiesto – e come dobbiamo confrontarci con questo mondo che si sta agitando?». «Non credo che la proiezione dell’Italia sia nel Mediterraneo – egli rispose – […] il Mediterraneo è complicato, destabilizzato, autoritario»: tagliente come una rasoiata, ma di quelle autoinferte.
Io do per scontato che il “Ponte sullo Stretto” si possa fare, perché le attestazioni della sua fattibilità sono state espresse al massimo livello da società di validazione indipendenti, di calibro internazionale. Non è invece scontato, per quanto detto fin qui, che si sappia davvero perché farlo, quantomeno a livello di opinione pubblica.
Perché farlo? Perché esso costituisce un atout formidabile che l’Italia ha ancora nella manica, capace di più valenze assieme geopolitiche ed economiche, in grado di accendere nel Paese una seconda locomotiva da affiancare a quella arrancante padano-veneta, ormai priva di margini di espansione e in sofferenza da decenni, come mostrano gli incrementi minimali del suo PIL nel lungo periodo. Come farebbe il Ponte a operare tale accensione? Lo farebbe consentendo alla Sicilia, alla Calabria, e a tutto il Sud, di essere luogo di cattura, di lavorazione e smistamento locale e internazionale di quote non secondarie del traffico-merci della rotta medio-mediterranea, che da sola vale un quarto del traffico commerciale marittimo mondiale: una rotta che passa d’accosto alla Sicilia senza procurare al Sud nessun beneficio, dato che in un posto impedito di esportare velocemente, e in quantità, nessun sano di mente sbarca merci né investe per dotarle di valore aggiunto. Mentre ciò sarebbe possibile in presenza del Ponte e di un connesso sistema portuale e ferroviario veloce. Con una doppia valenza d’azione: non solo nel profittare della prossimità della rotta tesa tra Shanghai e Rotterdam, ma anche nello spingere e attrarre relazioni economiche e politiche col continente africano (a soli 140 km dalla Sicilia), che tutti gli indicatori economici e demografici indicano come quello del maggiore sviluppo a venire.
Un corridoio euro-africano1, che passasse per il Ponte di Messina e che per porti siciliani e tunisini si spingesse fino all’Africa sub-sahariana sarebbe anche un modo di “aiutarli a casa loro” e di sottrarre le soglie di casa nostra, per quanto ancora possibile, all’influenza soffocante dell’espansione imperiale cinese. Questo sì, sarebbe il senso di un vero “Piano Mattei”, da attuare in termini di rispettosa parità con i partner africani, affrancandoli per quanto possibile dalla pelosa presenza cinese e russa. Vorrà la politica, quella italiana e quella europea, coglierne il senso e attuarne il concetto? Anche la Presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, ha annunciato nelle scorse settimane un poderoso progetto geopolitico europeo, infrastrutturale e commerciale, intitolato “Global Gateway”, inteso a controbilanciare, con qualità differenti, la cinese “Belt and Road” (Via della Seta). Anche a questo scopo il Ponte di Messina appare essenziale, come avremo modo di mostrare in queste pagine, in un prossimo intervento.
NOTA
1. Cfr. Marcello Panzarella, Movin’ to the Future. Geopolitica e infrastrutture, Visioni da Sud, edizioni Arianna, Geraci Siculo 2022.