di Marcello Panzarella

Al pari della guerra in Ukraina, che precluderà a lungo una proiezione geopolitica europea verso la Russia e l’Asia centrale, il cambiamento climatico – aprendo tra l’Estremo Oriente e l’Europa del Nord la rotta artica, più breve di quella attraverso l’oceano Indiano, potrebbe ridurre la portata complessiva della rotta meso-mediterranea, attenuando le prospettive commerciali e di sviluppo che ad essa si legano su entrambe le sponde, nord e sud, di questo mare. Per tale ipotesi, il periodo di continuo sviluppo compreso tra l’apertura del canale di Suez e i primi decenni di questo secolo potrebbe andare incontro, verso la sua fine, a un ridimensionamento inedito, sostanzialmente differente da quello bellico legato alla Seconda Guerra Mondiale. Tale ridimensionamento, che corre anche il rischio di essere accelerato o anticipato da cambiamenti delle relazioni geopolitiche, sarebbe dannoso per tutti i Paesi che si affacciano sul mar Mediterraneo, ma sarebbe esiziale per il Meridione d’Italia e per la Sicilia, giusto nel momento in cui, con ritardo, la classe dirigente di questo Paese si sta accorgendo dell’opportunità di legare ai traffici di questo mare lo sviluppo del proprio Sud, e sta avviandovi una serie importante di nuove infrastrutturazioni. Il risveglio italiano giungerebbe forse oltre il momento favorevole?
Per esempio, il ponte sullo Stretto di Messina, o l’Alta Velocità da Salerno a Reggio di Calabria, ora in procinto di essere varati, sarebbero già “fuori tempo massimo”?

La risposta dovrebbe essere un no, ma a certe notevoli condizioni.
Quella principale riguarda l’attuazione indispensabile di un cambio deciso di prospettive: non tanto l’abbandono delle attese legate ai rapporti Est-Ovest, quanto, definitivamente, la concretizzazione di quelle, sempre annunciate e mai soddisfatte, dell’instaurazione di rapporti per linee meridiane, lungo la direttrice meno marittima e più terrestre tra il Nord e il Sud del Vecchio Mondo. In fondo, solo 14 chilometri separano la penisola iberica dal Marocco, e 140 corrono tra la Tunisia e la Sicilia. Più i 3 dello Stretto di Messina. Poiché l’Øresund Bridge è ormai una realtà compiuta, una prospettiva che il Ponte di Messina renderà più concreta sarà quella di veicolare più facilmente merci, uomini e idee dal capo Nord, in Norvegia, fino al capo di Buona Speranza, in Sud Africa. E viceversa. L’idea certamente non rimanda all’esercizio di un lusso voluttuario – non una Parigi-Dakar – ma serve ottimamente a esprimere un concetto dello stesso ordine di quelli che, fomentati da Lyndon LaRouche (1922-2019) furono propagandati, soprattutto in Oriente, sotto il nome di “Eurasian Landbridge”, costituendo poi il nucleo dell’idea concretamente perseguita dalla Cina come “Nuova via della Seta”. Ecco, il valore simbolico di una via per meridiani, non così globalizzante come la “Belt & Road” cinese, ma espressiva di una situazione più locale, consiste nel riconoscere e voler far riconoscere la realtà di una nuova solidarietà possibile tra il Nord e il Sud del Vecchio Mondo. Perché, pur restando attuale e notevole il rilievo delle azioni immateriali, delle iniziative basate su sovvenzioni e accordi di partenariato di natura economico-finanziaria, nulla riesce ancora più tangibile, più catalizzatore e fattore d’ordine, e più ricco di frutti di un tracciato ferroviario e autostradale, a condizione che sia stato disegnato seguendo obiettivi e ragioni condivise, o condivisibili.


Naturalmente non sarà possibile dimenticare che fino all’altro ieri quel Sud e quel Nord del mondo sono stati rispettivamente vittima e carnefice. Ed è nelle cose che, per questa storia pregressa, e per il ruolo che vi hanno avuto, le nazioni europee abbiano un forte handicap da scontare, che ne offusca l’appeal rispetto alla sirena cinese. Esattamente quell’handicap che è emerso dal recentissimo discorso di Dilma Rousseff, già presidente del Brasile, pronunciato nel ruolo di capo della Nuova Banca di Sviluppo di Shanghai, in occasione del World Peace Forum tenutosi a Pechino ai primi di questo luglio 2023. Come riporta Gabriele Carrer, la Rousseff «accusando l’America e il “Nord globale” di accaparrare ricchezze e di cercare di contenere rivali come la Cina, ha condannato le potenze occidentali per aver rifiutato la diversità e aver cercato di imporre un unico modello di democrazia». Ecco, certamente con toni volutamente forzati, le accuse della Rousseff esprimono una realtà di risentimento che non può e non deve essere trascurata. Con essa occorrerà fare i conti, perché all’Europa – e all’Italia – non restano altre opzioni possibili.


Bisogna ammettere che il bilancio è sconfortante. Oltre alle antiche radici colonialiste, non ancora del tutto estirpate, lo hanno aggravato fatti ancora recenti, e protagonismi nazionali fuori tempo, di natura militare ed economica, come l’aggressione e la distruzione dello Stato libico, per principale iniziativa francese (2011). Pesano anche le politiche europee di respingimento dei profughi economici provenienti dai Paesi del Nord-Africa, e – dopo il lungo e irrisolto tira-molla per l’ammissione della Turchia nella UE – si devono fare i conti col risveglio del suo nazionalismo imperialista (1999 e 2003), e col suo protagonismo in Medio Oriente e in Libia (2019-2020); la Russia, già tesa a riconquistare un ruolo attivo nel Mediterraneo orientale (annessione della Crimea, 2014; sostegno al regime siriano, 2015; attacco all’Ukraina, 2022) si è insediata stabilmente sulle coste mediterranee del Nordafrica, sostenendovi il regime libico di Haftar in Cirenaica (2019-2020). Delle milizie russe che costellano il resto dell’Africa e della pervasiva presenza cinese si potrà trattare in altre occasioni, ma per dare la misura dei rischi basta qui fare cenno al colpo di stato in Niger (27 luglio scorso), che ha messo fuori gioco il presidente eletto, filo-occidentale, sostituito da un governo a guida militare, cui le onnipresenti milizie russe di Prigozhin si sono affrettate a dare sostegno. Nonostante tutto ciò e anzi proprio a ragione e in forza di ciò, né all’Europa – né all’Italia – restano alternative vitali all’impegno nel rapporto con l’Africa, quali l’attuazione urgentissima della iniziativa UE “Global Gateway” per contrastare l’influenza della “Nuova via della Seta” cinese, e – in coordinamento con l’Europa – il varo del “Piano Mattei” per l’Africa. Un disimpegno, o una lenta risposta, segnerebbero per l’Europa e l’Italia un destino da vasi di coccio, da soggetti e non da protagonisti, sbattuti tra marosi sempre più forti e in contrasto, in un mare “in gran tempesta”. In tal caso, sì, non ci sarebbe più tempo.